Sguardi queer sul tempo nel nostro quotidiano andare

Riflessioni di Cristina del gruppo Kairos di Firenze

Tempo, questa è la parola FARO.

Primo giro di luce.

Nelle ultime settimane mi sono interrogata sul senso della frustrazione. Nella professione di insegnante, che è quella che vivo, mi confronto ogni giorno con giornate-sorpresa, con eventi non previsti, con situazioni nuove e inaspettate, con lo sgorgare di emozioni improvviso e pieno, con un materiale umano vario, colorato e multiforme. Gli studi aiutano, la progettualità, l’aggiornamento, il confronto con i colleghi e con essi l’esperienza, fatta di singoli giorni ad libitum. Eppure la sensazione di inadeguatezza è sempre dietro l’angolo.

E così la frustrazione di non riuscire, di non comunicare in modo e cace, di non aiutare a dovere chi hai davanti, di procedere in una strada chiusa.

Secondo giro di luce.

Rileggo questi versetti del libro di Samuele: 1Sam 3,1-10.19-20. Samuele scambia la voce del Signore con quella di Eli. Chi parla è l’Altro e Samuele sopravvaluta Eli. Anela a qualcosa di grande. Applico quanto accade a ciò che è avvertito come autorità.

Pensando alla scuola, come insegnante, anche se fa piacere essere ascoltati e tramandare agli altri dei valori, auspico – a scacco del mio narcisismo – che le giovani e i giovani possano emanciparsi dalla mia opinione. Per fare questo, per farmi Eli-che-reindirizza, sono io che devo cambiare, sono io che devo mettermi in discussione, sono io che devo pensare che qualcosa mi sfugga. Quanti “io”! D’altronde il lavoro di decentramento wasn’t built in a day.

Ci sono persone, voci, opinioni autorevoli per me.

Ma se le prendo come punto di riferimento incontrovertibile, cosa accade? E’ questa un’attitudine pericolosa che a lungo andare ingenera insicurezza, insoddisfazione di sé e soфerenza.

Mi viene in mente il rapporto con la mia Chiesa, con quanto di essa mi appare critico, pericolante, non convincente, contraddittorio con l’aфermazione del libero arbitrio.

In dialogo con lei le dico: mi vuoi libera, ma non libera di proporre una visione altra, di metterti in discussione, di ribellarmi, di dire “non mi convince, ho dei dubbi”, “riparliamone insieme” oppure “come può accadere questo?” – che poi è un domandina familiare pure a Maria e Nicodemo.

La messa in discussione dei maestri è invece una Via per la libertà.

Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo”: così recita il titolo di un testo di Shelton B. Kopp, psicoterapeuta che affronta il tema del pellegrinaggio spirituale di un individuo in ricerca.

Uccidere il Buddha è un’espressione per intendere l’emancipazione dai maestri, persino e soprattutto i più fondanti e necessari. Nel mio rapporto con il Vivente, Gesù, leggo queste parole come un invito ad una fede adulta, che si confronta, critica, si accosta, assapora, gradisce, si diverte, non apprezza ma non aspetta il permesso per dire di no o per agire in linea con la propria coscienza.

Non siamo bambini, non stiamo facendo finta, non sono tutte partite di prova, a carte scoperte. Siamo creature libere, atte a mettersi in gioco e, finalmente, a giocare.

Terzo giro di Luce

Esco dal cinema e la prima cosa di cui mi accorgo sono i rumori che produco: i miei piedi che si muovono sull’asfalto, i sassolini sotto le scarpe, la chiave che entra nella serratura della macchina, il rumore del mio zaino mentre lo appoggio sul sedile di fianco al mio, il tergicristalli azionato. In quei momenti ascolto. Sono uscita dalla proiezione di “Perfect days”.

Il protagonista Hirayama vive emozioni come me e presta ad esse attenzione, la sua vita è semplice e umile, porta le sue ferite nel cuore, sa donare sguardo e cura a chi lo circonda, si rende conto di quanti lo snobbano o non lo apprezzano, è capace di rimanere dove sa di stare bene.

I suoi giorni sono imperfetti, sono umani, come i miei: nella routine accadono imprevisti, contrattempi, di coltà, c’è spazio per il dolore, la rabbia, la delusione, la sensazione di ingiustizia. C’è musica, ci sono libri, una bella donna, il gusto di mangiare e di bere “dopo una faticosa giornata di lavoro”.

“Ecco a te”. Lui, in tutto questo, sta. Non fugge, si lascia andare nel flusso e lo vive. Scegliendo sempre dove vuole stare, con gentilezza e consapevolezza.

Se Samuele sembra un po’ ansiosetto nella sua smania – vitale, eh – di capire la sua direzione, Hirayama sembra più maturo, ha già risposto, ha fatto la sua scelta adulta: sa dove vuole stare ma, sopra ogni cosa, sa COME ci vuole stare. Vedo queste due attitudini come parte di me, come un’evoluzione a spirale che si ripeterà ancora e ancora. Qualcosa che mi riporta al valore inestimabile del Tempo e del processo.

Se le cose non cambiassero mai sarebbe assurdo”: ha ragione Hirayama.

Con questi colpi di luce del faro Tempo, che tornano su se stessi, in questo breve viaggio, metto a fuoco qualcosa di me: che dalle frustrazioni si passa e che non hanno l‘ultima parola, che vanno attraversate tutte a dispetto dell’immobilità delle gambe e del cuore. Il passo, quello che spaventa, va compiuto.

Mi rendo anche “conto di quanto è bello”, come dice Zerocalcare, che “non porto il peso del mondo sulle spalle, che sono soltanto un filo d’erba in un prato”, e che, come dice Francesco d’Assisi, valgo tanto quanto valgo di fronte a Dio e non di più. Che, insomma, posso frustrarmi di non riuscire, ma tento, questa sono, Dio lo sa, mi ama, sono piccola e va bene così.

E vedo anche che sono io Samuele, che chiede quale sia la sua strada, che sente voci, febbrile e curioso, che è pronto a muoversi ma non ha ben chiaro ancora per dove e per cosa. E sono io Hirayama, che con calma vede la strada, vede il Vivente, si sente un vivente e vive e sta.

In tutto ciò, è il Tempo che illumina il percorso. Tempo di, ma soprattutto Tempo per.